Ero molto giovane negli anni che per molti sono stati il culmine del rock progressivo. Un tempo in cui la musica non era solo da ascoltare: era da esplorare, da decifrare, da vivere. Niente Spotify, niente YouTube, solo dischi in vinile, copertine giganti che sembravano portali verso altri mondi, e il tempo – quello vero – da dedicare a ogni lato di un LP.
Per noi, ragazzi con i capelli sempre spettinati e l’anima inquieta, il rock progressivo non era semplicemente un genere musicale. Era un linguaggio segreto, una mappa per scoprire nuovi paesaggi interiori. Mentre fuori il mondo correva veloce tra rivoluzioni sociali e guerre fredde, noi ci chiudevamo in cameretta, le luci soffuse, il giradischi acceso, e partivamo per viaggi senza confini con i Genesis, i King Crimson, i Pink Floyd, gli Yes.
Ricordo ancora la prima volta che ascoltai "Selling England by the Pound". Mi sembrava di entrare in un sogno fatto di elfi e operai, poesia e quotidianità. Peter Gabriel non cantava soltanto: raccontava storie, come un bardo moderno. E mentre i suoi personaggi prendevano vita nella mia immaginazione, io capivo che la musica poteva anche essere teatro, poesia, letteratura e pittura.
Ma il rock progressivo non era solo fantasia. I Pink Floyd con "The Dark Side of the Moon" mi misero di fronte alle ansie del tempo che passa, all’alienazione, alla follia. Ero giovane, ma ascoltando "Time" sentivo già il peso della clessidra che scorre. Non era solo una canzone, era una lezione esistenziale, con quel ticchettio d’orologio che sembrava scandire ogni mio pensiero.
Poi, un giorno, arrivò la PFM. E lì, capii che anche l’Italia poteva parlare quel linguaggio. Quando ascoltai "Storia di un minuto" restai di sasso. C’era dentro tutta la potenza del progressive inglese, ma reinterpretata attraverso una sensibilità nostra, mediterranea, piena di lirismo. Brani come "Impressioni di Settembre" o "La Carrozza di Hans" erano veri e propri viaggi emotivi. La voce di Mussida, il flauto di Pagani, le tastiere di Premoli... tutto suonava nuovo... ma familiare.
E quando uscì "Photos of Ghosts", mi resi conto che la PFM stava facendo il grande salto: l’inglese, il pubblico internazionale, la produzione di Pete Sinfield (sì, proprio lui, il paroliere dei King Crimson!). Ma non stavano copiando: stavano esportando un’identità italiana, fatta di melodie limpide, virtuosismo e vera poesia. Pochi gruppi riuscivano a unire così bene cuore e tecnica.
Certo, ascoltare il rock progressivo non era per tutti. Alcuni brani duravano più di venti minuti, pieni di cambi di tempo, assoli infiniti, testi criptici. Ma noi non volevamo canzoni facili. Volevamo esperienze intense. E lo facevamo sempre: ascoltando i pezzi con gli amici, un solo lato di un disco diventava la colonna sonora di discussioni su Nietzsche, sugli UFO, o sull’esistenza dell’anima.
Il rock progressivo mi ha insegnato a pensare. A dubitare. A cercare. Ogni album era una sfida intellettuale, un invito a non accontentarsi della superficie.
E poi c’erano le copertine. Quelle meravigliose, visionarie, assurde opere d’arte. Roger Dean, con i suoi paesaggi impossibili, sembrava disegnare proprio i mondi che immaginavo mentre ascoltavo. Non erano solo illustrazioni: erano mappe per viaggiare senza muoversi.
Oggi, a distanza di... qualche anno, ogni volta che rimetto su quei dischi – ovviamente adesso in digitale – torno ragazzino. Torno in quella cameretta con la porta chiusa, il mondo fuori e l’universo dentro. E mi accorgo che il rock progressivo non è affatto invecchiato: è semplicemente diventato parte del mio modo di pensare, di vedere, di sentire.
Perché una volta che hai scoperto che esistono mondi dentro un brano da venti minuti, non puoi più tornare indietro.